Benedetta Carpi De Resmini su Cityscapes Museum – Roma
Città, archivio e memoria sono le coordinate alla base del progetto di Valeriana Berchicci che nasce proprio dalla volontà di restituire un ritratto del tessuto urbano di Roma, attraverso le innumerevoli voci che la animano e che sono inserite nei vari quartieri percorsi durante la sua realizzazione. L’artista ha così realizzato Cityscapes, un museo digitale della memoria. Una piattaforma digitale, che viene resa viva dai racconti e dalle testimonianze di coloro che sono stati intervistati e di tutti coloro che intendono ampliare questa collezione effimera, ma al contempo imperitura.
A ispirare il progetto è il Museo Immaginario di André Malraux, «un museo senza muri, che in questo caso viene reso dinamico e ancora più aperto e fluido dall’utilizzo della voce, mezzo espressivo che più di tutti permette di superare confini e di proiettare il pubblico in un universo potenzialmente infinito di im maginari».
Se da un lato Valeriana Berchicci dichiara la paternità concettuale di Cityscapes nell’ambito degli scritti di André Malraux e del Museo immaginario, il progetto della giovane artista si inserisce perfettamente in quello che Aby Warburg definiva Atlante della memoria. Proprio come Malraux, Warburg era interessato ai processi psicologici che determinano l’immaginazione e l’espressione sia artistica che non artistica, la memoria individuale e collettiva, e infine l’effetto delle immagini. Definirei quindi il progetto dell’artista come un vero atlante della memoria, un’unione anche se metaforica e concettuale dei due scritti.
Sia il Museo Immaginario di Malraux che l’Atlante Mnemosyne di Warburg sono legati dall’idea dell’arte come memoria collettiva dell’umanità. La visione di Malraux concepisce un’idea di “psicologia dell’arte” universale, umanista, che trascende tutte le tradizioni e anche i confini, divenendo un progetto in qualche modo anche politico, ma pur sempre immaginario; il progetto di Warburg d’altra parte, ha origini antiche e affonda le sue radici in Mnemosyne, dea greca della memoria, custode dei ricordi e madre delle nove muse. Per Warburg il suo scopo principale è quello di un’indagine sulla memoria collettiva dell’umanità rappresentata in modo pittorico, attraverso i simboli e le sue specifiche espressioni psicologiche e metaforiche.
Non si pretende certo di fare paragoni ma di contestualizzare, attraverso il pensiero di questi due numi tutelari della nostra moderna museologia, le radici del progetto di Valeriana Berchicci.
È da questa premessa teorica che si fonda il progetto, per arrivare a superare le forme visibili della città, per esplorare le strutture più recondite, intime e profonde che generano lo spazio abitato. I ricordi che abitano non solo i palazzi ma anche i quartieri, ne formano l’ossatura perché custodi dei segreti e dell’origine di questi luoghi. Abbiamo voluto attraversare una parte della periferia, dal greco perí (intorno) fereia (portare), quella parte che circonda, che ruota attorno al centro storico, perché è solo attraverso l’unione tra centro e periferia che si costruisce il prisma della città contemporanea. […] Esiste quindi una connessione profonda tra il progetto di Valeriana Berchicci e l’arte pubblica partecipata che da anni oramai è parte delle mie indagini. Questa tipologia di progettualità è un’attività ibrida che soltanto in parte risponde alle esigenze di creatività del singolo artista che si mette in qualche modo all’ascolto del singolo per la costruzione di una vera opera collettiva. È proprio su questo punto che la mia ricerca si è perfettamente inserita all’interno di questo progetto e dell’idea dell’artista. L’azione del linguaggio all’interno di una sfera pubblica collettiva costituisce l’anello di congiunzione: quello spazio vivo e corporeo di cui parlano Caffo e Muzzonigro nel loro saggio Costruire futuri. Il profondo significato del “nostro” paesaggio urbano emerge da un allargamento in verticale dell’orizzonte di osservazione, non limitandosi al profilo urbano o al panorama architettonico, ma cercando di andare oltre quelle che sono le regole della storia. Ritrovando forse in qualche modo “i luoghi delle memorie rimosse” che rappresentavano per gli Stalker gli spazi «del divenire inconscio dei sistemi urbani, il lato oscuro delle città, gli spazi del confronto e della contaminazione tra organico e inorganico, tra natura e artificio». In questo caso, gli spazi urbani per noi rappresentano le immagini e i simboli di un paesaggio che diventa collettivo. Se per gli Stalker sono il nomadismo e l’attraversamento a diventare pratiche di conoscenza e a costruire un sistema di relazioni, per Cityscapes è la pratica della “speleologia urbana” che porta a riscoprire in profondità le singole memorie e a innescare un nuovo sistema di conoscenza e di relazioni.
Estratto da “Cityscapes, la speleologia urbana” di Benedetta Carpi De Resmini, in Cityscapes: Museo digitale della Memoria, Iacobelli Editore 2021.
www.cityscapesroma.it (primo sito del progetto, attivo fino al 2030)
Elena Giulia Rossi su Cityscapes Museum – Roma (RM)
Prima di tutto che cosa è Cityscapes? Come si pre senta al mondo nel suo primo giorno di vita?
Cityscapes è «un museo digitale della memoria dedicato a porzioni nascoste di alcuni quartieri di Roma, dal centro a zone popolari come Tor Bella Monaca, Corviale, Trullo, San Basilio e Tor Pignattara» e prende forma in una piattaforma online che mappa la città attraverso memorie orali raccolte dall’artista che la attraversa e dagli utenti online ai quali la piattaforma si rivolge. Già molto è da sciogliere in questa prima descrizione. Il museo (immaginario) trova corrispondenza nei cityscapes, nei paesaggi urbani, nel loro generarsi, prendere forma e crescere attraverso la memoria orale, nella loro meta organizzazione sulla piattaforma online, ricettore di altre me morie attraverso una rete di relazioni che si aggiungono alla ‘matassa’, che tessono continuamente dentro e fuori dal web. Prima di toccare tutte le derive del lavoro, partiamo dall’aspetto umano, quello che ha portato l’artista ad attraversare i quartieri di Roma, a raccogliere le memorie, a stabilire relazioni, a costruire un contatto con gli abitanti. Un modello di edicola di fine Ottocento delle Poste Italiane riprodotto in scala è stato il dispositivo che ha fatto da trami te tra l’artista e il mondo. Berchicci ha portato con sé questa struttura nei quartieri anche con una certa fatica fisica che, assieme a quella emotiva che lo stabilire relazioni comporta, sono diventati parte centrale del lavoro, almeno così li cattura la percezione di questa prima lettura e navigazione del progetto. Sulla piattaforma online, l’edicola lascia la sua impronta nella sagoma ottagonale della base che si sovrappone ai quartieri visitati indicati su una mappa topografica che fa da sfondo, collocata in un tempo lontano. La sagoma ottagonale è porta di accesso ai rispettivi quartieri. Qui grafiche audio che appaiono in primo piano, costruiscono un percorso che si sovrappone alle vie dove sono avvenuti gli incontri, pulsano e chiamano all’ascolto, vengono vicino allontanandosi da un pianeta lontano che immaginiamo essere quello perimetrato dall’antica mappa topografica dello sfondo. Quando attivati, gli audio portano le persone vicino, instaurano una relazione, trasmettono calore a chi ascolta, anche se in differita. Sono le memorie degli abitanti, scorci di vita dell’uomo, ricordi intimistici che a volte si intrecciano con la storia, tracce egualmente importanti, tutte colte nella spontaneità dell’incontro di cui fanno parte anche i rumori urbani che nelle registrazioni sono lasciati incontaminati. L’umanità è dove il lavoro affonda le sue radici, nelle modalità di raccolta delle memorie, ma anche nel modo in cui sul web sono rese graficamente, una sedimentazione e stratificazione di codici visivi che appartengono al mondo nel modo in cui prende forma e concretezza nella nostra sfera percettiva. Anche questi attraversano il tempo. La grafica utilizzata nell’invito agli utenti per lasciare la loro memoria richiama le ‘antiche’ cassette audio; quella che li invita a coinvolgere altri utenti prende le sembianze di una cartolina e richiama la tecnologia della posta e il suo potere di avvicinare mittente e destinatario nell’illusione di una vicinanza anche fisica ed emotiva. Usciamo per un momento dalla piattaforma e torniamo all’idea, alla genesi del lavoro. Cityscapes è ispirato al Museo Immaginario di Malraux (1947), il museo senza mura che l’autore attingeva all’epoca della “riproducibilità tecnica”, alla possibilità di utilizzare le riproduzioni per uscire dallo spazio e dal tempo, di confrontare capolavori di ogni dove e di epoche distanti tra loro, di elevarli dalle mura stesse dei musei e dei loro contesti. Il Museo Immaginario di Valeriana Berchicci si fa spazio tra il web e lo spazio fisico. Non ci sono mura ma spazi connettori, quello elastico della piattaforma, quello umano della sua persona fisica, quello dell’edicola come dispositivo. L’umanità si esprime nella sua immediatezza ritrovata nel ricordo orale, costruita attraverso l’incontro, il passaggio; in questa forma è sollevata dal terreno e “riattivata” sul web, visualizzata attraverso grafiche e segni che dialogano in maniera molto efficace con la nostra percezione. Cityscapes e il museo che incarna esiste in un’e poca che segue quella della “riproducibilità tecnica” e si addentra in quella della produzione, quando l’ombra di forme, colori, odori, contenuti, delle stesse esistenze è traslata nello spazio digitale. Tutto ciò che atterra in questo luogo va incontro a un processo di produzione, di continue traduzioni di contenuti e forme che avvengono su uno stesso piano temporale. Siamo ancora abituati a pensare Big Data o Intelligenze Artificiali come altre da noi. A Valeriana Berchicci sembra essere chiaro che l’origine di tutto ciò che associamo ad automazione o intelligenze altre da noi proviene dall’uomo. Da qui la necessità di immettere in questo immenso oceano magmatico una parte di umanità che si sta estinguendo, sciolta nella frenesia di produrre dati, nell’impegno di vincere scontri giocati su un piano tutto quantitativo, piuttosto che altro. Sono questi elementi che definiscono il pro filo della piattaforma e la sua natura di spazio pubblico e di “dispositivo”, nel suo esistere e significare nell’interazione di elementi eterogenei, come lo intendeva Michel Foucault che questo termine lo aveva introdotto negli anni ’70 in relazione al potere3. Lo ritroviamo anche nel potenziale legato al nuovo, al divenire e alla consapevolezza che «noi apparteniamo a dei dispositivi e agiamo in essi», che Gille Deleuze estrapola da una lettura successiva del dispositivo di Foucault nella sua ultima conferenza. Nell’essere tante cose, Cityscapes è anche una “eco logia della visione”, come Berchicci stessa afferma esplicita mente essere nelle sue intenzioni. Lontani dal voler attribuire caratteristiche e qualità della piattaforma a definizioni e teorie in maniera rigida, e soprattutto in questa fase gestionale, riconosciamo molto dell’approccio ecologico dalla percezione visiva dello psicologo James J. Gibson, in particolare nella necessità di percepire muovendosi nell’ambiente, di considerare l’interazione e integrazione dei diversi sensi, l’osservatore e il suo ambiente come complementari, l’atto conoscitivo come estensione di quello percettivo e il linguaggio come strumento di conoscenza «esplicita piuttosto che tacita». Nella loro funzione documentale, le voci delle me morie e i rumori di sfondo sembrano restituire la percezione dell’aria, del respiro dell’umanità, quell’aria che per James Gibson è alla base di ogni percezione, per Maurice MerlauPonty la sua essenza. «Nelle sue vibrazioni l’aria trasmette le onde sonore, e grazie a questo siamo in grado di sentire; e nella libertà di movimento che offre, ci permette di tocca re»7. Così lo esprime l’antropologo Tim Ingold che nella sua «ecologia delle relazioni sociali» dove l’uomo è visualizzato come una linea in movimento perpetuo che genera percorsi e direzioni sempre diversi sulla base del loro intrecciarsi con altre linee. Un insieme di linee è anche ciò che compone la matassa dispositivo che «non delimitano né cricoscrivono direzioni, tracciano processi in perenne disequilibrio; talvolta si avvicinano, talvolta si allontanano le une dalle altre». Seguire questo tracciato, racconta molto altro del museo di Valeriana Berchicci. Nel suo museo non dobbiamo cercare degli oggetti perché «disegnare i limiti della materia lità intorno alle superfici del paesaggio e dei manufatti significherebbe lasciare gli abitanti del paesaggio e gli utilizzatori dei manufatti in un vuoto. Non riuscirebbero a respirare. Né potrebbe crescere nulla». Dobbiamo cercare, piuttosto, i processi l’intrecciarsi del tutto, della vita stessa e delle sue trasformazioni “con” e “nel” dispositivo.
Estratto da “A Passo d’Uomo, Viaggio nel Museo Immaginario di Valeriana Berchicci” di Elena Giulia Rossi in Cityscapes: Museo digitale della Memoria, Iacobelli Editore 2021.
www.cityscapesroma.it (primo sito del progetto, attivo fino al 2030)
Luigi Virgolin su Cityscapes Museum – Roma (RM) / Lainate (MI)
La memoria ha sempre dato forma e sostanza al reticolo della mappa. Un caso celebre di mappatura letteraria novecentesca è quello di Walter Benjamin, sia che rievochi la Berlino dell’infanzia (1950) oppure che immortali nei Passages di Parigi l’archetipo della modernità (1982). Ancora Roland Barthes, sulle tracce di Marcel Proust, disegna la mappa del quartiere in cui si svolge la vita parigina dello scrittore, il Faubourg Saint-Honoré. Per una trasmissione radiofonica egli raccoglie i luoghi notevoli, spostandosi da un punto all’altro: l’effetto di realtà discende dai dettici, dagli scambi verbali con le persone del posto, dai rumori di fondo (Pezzini 2021). Certamente, con l’avvento e l’affermazione del digitale gli archivi della memoria si sono fatti sempre più ambiziosi, capaci di abbracciare vasti corpora. La memoria del mondo si fa mappa, si rapprende e si deposita in archivi e repository, diventa principio organizzatore di testualità. Le mappe della memoria si presentano come forme di inscrizione della soggettività nel tessuto urbano. Su di esse si innestano le possibilità dischiuse dal digitale, a ridefinire la relazione tra la rappresentazione dello spazio, le memorie in esso custodite e le nuove tecnologie. Cityscapes si definisce come museo senza muri, ispirato al Museo Immaginario di André Malraux (1947) dove l’opera d’arte si libera del rapporto fisico e materiale per farsi puro luogo mentale e aprirsi così all’immaginario, individuale e collettivo. Con un gesto che ha una valenza estetica oltreché politica, il Museo Immaginario squaderna davanti agli occhi di noi spettatori l’intera storia dell’arte, grazie alle possibilità di riproduzione e dunque di diffusione conferite dalla fotografia. Nel nuovo Museo non conta la singola opera d’arte quanto l’arte in sé come «assoluto trascendente» e messa in discussione del mondo, «canto della metamorfosi […] dove le estetiche, i sogni e perfino le religioni non sono altro che i libretti di una musica inesauribile» (ivi, p. 173, trad. nostra). Tant’è che proprio nell’assenza dell’opera d’arte il Museo trova la sua massima espressione: svincolata dal supporto e dal rapporto fisico grazie alla fotografia – spazio della collettività –, l’opera diventa pura forma mentale e si trasferisce nel museo che ognuno «porta dietro le palpebre», spazio dell’individualità. Il dettaglio consentito dall’ingrandimento fotografico, poi, accresce le possibilità di esplorazione (inter)testuale e di confronto, facendo leva sull’immaginazione. Se per il Musée Imaginaire è la riproduzione fotografica a suggerire prospettive impensate e utopiche, in Cityscapes è la voce («musica inesauribile») a farsi sostanza espressiva. Le testimonianze orali si fanno eco da un comprensorio all’altro, da un lotto all’altro, da una via all’altra, da un quartiere all’altro. Se lo spazio cede il passo al tempo, e il tempo si fa vero architrave della mappa della città, è l’oralità a farsi motore di esplorazione e veicolo di attraversamento della mappa. Alla voce e alle voci degli abitanti è affidato il compito di farsi carico della figuratività, verso un superamento della rappresentazione cartografica tradizionale ad opera dello sguardo. Una figuratività da intendersi al suo grado zero, apprezzabile per le sue salienze fisiche. In qualche misura prossima alla “figurabilità” dell’urbanista Kevin Lynch, dalla cui esperienza ogni cittadino deriverebbe la propria immagine mentale della città e il proprio rapporto con lo spazio urbano: «La qualità che conferisce ad un oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore una immagine vigorosa. […] Essa potrebbe venir denominata leggibilità o forse visibilità in un significato più ampio, per cui gli oggetti non solo possono esser veduti, ma anche acutamente ed intensamente presentati ai sensi» (Lynch 1960: 31-32). La parola orale modella i contorni di Cityscapes. La voce è innanzitutto un sapere, uno strumento di conoscenza e scoperta, la forma del contenuto di Cityscapes. Come le audio guide nei musei, qui le tracce sonore ci guidano in un museo a cielo aperto, dischiudendo e suggerendo immaginari. La voce è anche un sentire, consistenza materica, forma dell’espressione. È la “grana” della voce nella terminologia di Roland Barthes (1985) interessato alla corporeità dei linguaggi, a quel “significante” testimone irriducibile del rapporto tra processi di significazione e la base materiale e fisica di tale elaborazione: «La “grana”, è il corpo nella voce che canta, nella mano che scrive, nel membro che esegue» (ivi: 265). In questo senso la voce è scrittura del corpo, inscrizione sulla mappa delle soggettività e dei corpi per il tramite della voce, che perde la sua valenza semantica e si fa appunto corpo unico e riconoscibile per le sue proprietà qualitative – intensità, durata, altezza e timbro –, l’inflessione dialettale romanesca, la prosodia della frase, il calore della parlata. Il sapere del luogo si trasforma in senso di appartenenza al luogo. La voce, ancora, è sentire assieme. La manifestazione sonora, in maniera più efficace di altri universi sensoriali, allestisce una situazione intersoggettiva dal carattere immersivo, intimo, emotivo e coinvolgente. Di nuovo Barthes riconduce questo tratto del discorso orale alla funzione fàtica o d’interpellazione della linguistica, tale per cui in una situazione di dialogo un soggetto lancia a un altro soggetto messaggi per agganciarlo, per conquistare il suo interesse, per ottenerne la fiducia: Quando parliamo, vogliamo che il nostro interlocutore ci ascolti; risvegliamo allora la sua attenzione con interpellazioni vuote di senso (tipo: “pronto, pronto, mi sente?”); molto modeste, queste parole, queste espressioni, hanno però qualcosa di discretamente drammatico: sono dei richiami, delle modulazioni – pensando agli uccelli direi: dei canti? – mediante i quali un corpo cerca un altro corpo. (Barthes 1986: 4-5)
Estratto da Cityscapes. Mappe Urbane digitali e nuove forme di soggettività, di Luigi Virgolin Su Rivista Ocula – Occhio Semiotico sui Media, ed. 2023